Claudio Ceradini sul nuovo art. 182-ter L.F. al convegno AGI

In occasione del congegno organizzato da AGI, Avvocati Giuslavoristi Italiani in collaborazione con l’Ordine Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili di Verona, ho avuto modo di commentare alcune delle novità che hanno interessato le regole della gestione della crisi e dell’insolvenza, in attesa della più complessiva e profonda riforma preannunciata dai lavori della Commissione Rordorf e dalla Legge Delega 155/2017.

Uno degli aspetti di novità è il nuovo testo dell’articolo 182ter Legge Fallimentare che, dopo la breccia apertasi a fine 2017 nella sino ad allora arcigna interpretazione di legittimità (e non solo), ammette perlomeno concettualmente la possibilità di proporre un pagamento falcidiato dei crediti per IVA e ritenute operate e non versate.

L’estensione della falcidiabilità a tutte le tipologie di tributi, predicata dal novellato art. 182-ter legge fallimentare, come modificato dalla Legge 232/2016, recepisce un principio che aveva trovato ultimamente spazio nella giurisprudenza nazionale, per effetto dell’orientamento comunitario, ma non risolve peraltro molti punti connessi alla gestione dei privilegi generali nelle proposte concordatarie, sui quali invece la lettura della giurisprudenza sia di merito che di legittimità appare ancora oggi molto variegata.

A fine 2016 i responsi della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (sentenza C-546/2016) e della Corte di Cassazione (Cass. Civ. 26988/2016) avevano contribuito ad abbattere il tabù della intoccabilità dei tributi costituenti risorse proprie dell’Unione Europea. Dal 2017 la nuova transazione fiscale, che è divenuto percorso obbligatorio per la formulazione di proposte di pagamento parziale o dilazionato di crediti tributari e previdenziali nel concordato e nell’accordo di ristrutturazione del debito, supera anche l’ultima l’impostazione della Suprema Corte, secondo la quale il “concordato con transazione fiscale” sarebbe una speciale figura di concordato preventivo. Oggi, il debitore che intenda nel concordato avanzare una proposta di soddisfacimento non integrale dei debiti tributari e previdenziali dovrà giocoforza transitare per l’art. 182-ter Legge Fallimentare e dovrà misurarsi con gli specifici presupposti sanciti dal nuovo primo comma, che riecheggia i contenuti dell’art. 160, comma 2, legge fallimentare, norma naturalmente deputata alla disciplina dei criteri di falcidia dei privilegi speciali e, secondo l’orientamento ormai consolidato, generali. Rimane quindi aperto il nodo cruciale su cui dottrina e giurisprudenza si sono interrogati in tema di falcidia dei crediti supportati da privilegio generale. Se, infatti, il debito tributario può essere pagato in via parziale solo a condizione di ricevere un trattamento non inferiore a quello realizzabile in caso di liquidazione, e di essere soddisfatto in maniera non deteriore rispetto ai debiti di “rango” inferiore, la questione centrale torna inevitabilmente ad essere quella, già in precedenza oggetto di esteso dibattito, della corretta perimetrazione del patrimonio dell’impresa e della conseguente qualificazione della cosiddetta finanza nuova, esterna o terza che, in quanto estranea al patrimonio, può essere utilizzata derogando al principio secondo cui l’integrale soddisfazione dei privilegi di rango superiore rappresenti condizione indefettibile per il pagamento dei privilegi di grado inferiore o dei crediti chirografari.

In altri termini, se e nella misura in cui l’attivo concordatario non consenta il pagamento integrale del privilegio generale, ammettendone quindi concettualmente la falcidia in applicazione estesa del principio contenuto dell’articolo 160, comma 2, Legge Fallimentare, non potrà destinarsi alcunchè alla soddisfazione dei creditori chirografi, se non mediante l’utilizzo di somme che non derivino dal patrimonio. Come debbano tali somme essere definite, e secondo quali principi, è il vero problema irrisolto, da cui dipende anche la definizione del perimetro della pratica falcidiabilità del privilegio generale.

Il cardine interpretativo è costituito dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 9373 del 8 giugno 2012, in cui con particolare chiarezza il concetto di finanza esterna trova definizione. Il pagamento di crediti in concorso al di fuori della gerarchia delle prelazioni è possibile solo con finanza terza, a patto che essa “non comporti alcuna variazione dello stato patrimoniale del debitore, né all’attivo, giacchè in tal caso i creditori non potrebbero essere privati dei diritti che in base alla legge essi vantano sul patrimonio del debitore, e neppure al passivo, con creazione di poste passive per il rimborso del finanziamento, sia pure postergato e con esclusione del diritto di voto”. Chiarito il punto, diciamo il minimo comune denominatore, si apre il dibattito, su cui si registrano orientamenti giurisprudenziali molto divergenti. Alcuni tribunali hanno ritenuto equiparabile a finanza terza, come tale liberamente destinabile, tutto il maggior attivo conseguibile nel concordato preventivo, rispetto al fallimento, quale che ne sia la fonte, per effetto della peculiarità della proposta concordataria (Tribunale di Monza 22.10.2011; Tribunale di Rovereto 13.10.2014). Muovendo da questi presupposti si è giunti a sostenere che, anche in una prospettiva liquidatoria, la proposta concordataria in grado di favorire un migliore realizzo dei cespiti aziendali rispetto al fallimento produce un surplus utilizzabile alla stregua di finanza esterna (Tribunale di Treviso 26.2.2015).

In toni più sfumati lo stesso Tribunale di Milano (decreto del 3.11.2016) ha sostenuto che la capienza patrimoniale dell’impresa e la conseguente sua capacità di far fronte al pagamento dei creditori privilegiati deve essere verificata al momento della presentazione della proposta di concordato e non con riferimento a ciò che avverrà alla fine del piano. Solo il patrimonio attuale costituisce il parametro di valutazione per la falcidiabilità dei crediti privilegiati, mentre il maggior apporto generato dalla continuità, in termini di flussi o di investimenti, formerà una risorsa economica nuova, gestibile come finanza esogena.

Lo stesso Tribunale di Milano con provvedimento del 15 dicembre 2016 (nello stesso senso Tribunale di Trento del 7 luglio 2017), è tuttavia tornato sui suoi passi affermando che il surplus ottenuto dalla prosecuzione aziendale o da un’attività liquidatoria gestita in sede concordataria, e quindi meno drastica rispetto a quella fallimentare, non può essere considerato finanza esterna, tenuto conto che, secondo quanto previsto dall’art. 2740 c.c., l’imprenditore è chiamato a rispondere dei propri debiti con tutti i propri beni, presenti e futuri. Il quadro appare quindi molto, troppo variegato.

 

Tale variegato, e complesso, panorama interpretativo che la giurisprudenza di merito degli ultimi due anni offre in tema di misura e condizioni di falcidiabilità del privilegio generale, se letto congiuntamente con la nuova formulazione dell’articolo 182-ter Legge Fallimentare impone una riflessione sulle regole della transazione fiscale negli accordi di ristrutturazione del debito di cui all’articolo 182-bis.

Il nuovo quinto comma dell’articolo 182-ter, che in questo senso riproduce il sesto comma in vigore fino al 31 dicembre 2016, dispone che la proposta di cui al primo comma può essere presentata anche nel corso delle trattative che precedono la stipulazione dell’accordo di ristrutturazione del debito. Il punto problematico è che quel primo comma, che disciplina il trattamento dei crediti erariali e contributivi nel concordato preventivo, è invece molto cambiato, mutuando il contenuto dall’articolo 160, comma 2, Legge Fallimentare. Fino al 2016, quindi, unico obbligo della proposta, fatta salva l’infalcidiabilità del credito per IVA e ritenute non versate, era costituito dal paragone con altri creditori provvisti di analogo o inferiore grado di privilegio. Dal 2017 la nuova formulazione, che nulla toglie, aggiunge invece un limite minimo alla misura della proposta, che non deve essere inferiore al valore di mercato, in caso di liquidazione, dei beni e dei diritti su cui la prelazione insiste. Ci si chiede quindi se, posta la natura convenzionale dell’accordo di ristrutturazione del debito, che sfugge, secondo una visione ormai pacifica, al rigore della gerarchia legale delle prelazioni, il riferimento al primo comma dell’articolo 182-ter contenuto nel successivo quinto comma non debba oggi essere interpretato più sfumatamente. Perlomeno due elementi sorreggono questa lettura. In primo luogo l’introduzione nel nuovo testo del quinto comma della verifica di convenienza rispetto ad altre “alternative concretamente praticabili”, che può coincidere con le nuove valutazioni del primo comma in termini di valore di realizzo se la liquidazione è una reale opzione, ma che può ampiamente divergere ogni qualvolta, come negli accordi di questa natura non di rado accade, non lo sia per nulla. In secondo luogo non può trascurarsi il fatto che mentre nel concordato preventivo l’effetto cogente del voto che approvi la proposta si estende ai dissenzienti, a favore dei quali il limite del valore liquidatorio costituisce salvaguardia minima, nell’accordo di ristrutturazione il dissenso del creditore produce conseguenze opposte, e cioè la maturazione del diritto di essere integralmente pagato, cosicché quella stessa esigenza di tutela appare eccedentaria. Diversi appaiono gli ambiti, e diverse dovrebbero essere le regole di trattamento del credito tributario e previdenziale.